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Orazio, Odi, II 17
L’AMICIZIA

 

Vuoi scoraggiarmi con i tuoi lamenti?
Non è gradito ai numi che tu muoia
prima né a me, decoro grande tu
Mecenate e sostegno di mia vita.
Se una forza precoce mi rapisce
Una parte dell’anima, e sei tu,
come posso nell’altra rimanere
non più amato né intero? Ma quel giorno
porterà la rovina per entrambi.
Non l’ ho giurato invano: andremo, andremo
ancora insieme per la via suprema
anche se tu camminerai davanti.
Né mi dividerà da te l’ardente
fato della Chimera né Gigante
se mai risorga con le cento mani
così piace alle Parche e alla Giustizia
forte. Sia che la Libra o lo Scorpione
terribile mi guardi con la furia
del mio giorno natale o Capricorno
aspro tiranno alle marine Italiche,
le nostre stelle girano concordi.
La tutela di Giove luminoso
strappò te dal crudele empio Saturno
e trattenne del Fato l’ala rapida
quando la folla strepitò in un lieto
triplice plauso nel teatro; e me
avrebbe ucciso un albero cadendomi
sul capo se il custode dei poeti,
Fauno, con la sua destra non avesse
frenato il colpo. Tu pensa di offrire
vittime al dio e a dedicargli un tempio
a me un’ umile agnella basterà.

(traduzione di A. La Penna )

Un’amicizia leale e sincera, e non una finzione letteraria, fu quella che legò Orazio, il grande poeta lirico della Roma Augustea, al suo protettore Mecenate, che aveva riunito intorno a sé un circolo letterario di poeti e scrittori col compito di creare una nuova egemonia culturale, fondata sul recupero dei valori tradizionali e sull’ideologia di Ottaviano. Qui Orazio, figlio di un liberto ma spirito libero, passato attraverso la bufera delle guerre civili e desideroso di una quiete in cui coltivare la sua arte, trova un ambiente ideale, per cui spesso esprime la sua riconoscenza al potente amico. Ad esempio nell’Ode 1,1 il poeta sottolinea le origini illustri di Mecenate e la dolcezza del loro legame nel distico iniziale:

Maecenas atavis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum:
< Mecenate, da regio, antico sangue
sceso; tu mio riparo e dolce vanto:>

E ancora alla fine dell’ode, con piena consapevolezza della propria arte, dichiara con ironia la propria felicità se l’amico vorrà porlo nel numero dei “ Vati lirici ”.

Me doctarum hederae praemia fontium
Diis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
Secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton

Quodsi Me lyricis vatibus inseres,
Sublimi feriam sidera vertice.

“ Io dell’edera verde, per le dotte
fronti serbata in premio, sarò fatto
immortale. Dal volgo mi dividono
la frescura del bosco e i passi lievi
della Ninfe tra i Satiri, se il flauto
non tiene  muto Euterpe, ne Polimnia
nega gli accordi della lira Lesbia:

Chè se mi metterai fra i “ Vati lirici ”
Con la mia testa toccherò le stelle.

Orazio morì nell'VIII a.C. poco dopo il suo grande amico Mecenate, vicino al quale fu sepolto.

(Andrea Daloiso, Stefano Penta IV A)