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 Omero    (Iliade)

- Achille e Patroclo -

Nella letteratura occidentale, il primo modello d’amicizia, che potremmo definire “esemplare”, ci è proposto dall’Iliade d’Omero, in cui si narra la vicenda d’Achille e Patroclo. Essi vi sono descritti come due amici inseparabili, due anime diverse nel profondo, ma complementari, unite da una fedeltà assoluta. Achille, che è anche il protagonista del poema, è l’immagine dell’eroe per eccellenza, “uomo di straordinaria forza, di null’altro desideroso che della gloria conquistata in guerra”; bellissimo, alto, biondo, è impulsivo e sincero, fino all’impudenza, facile all’ira ed eccessivo in tutte le manifestazioni esteriori, guidato com’è da passioni incontrollabili ed elementari. Eppure in lui compaiono a volte venature di malinconia struggente e di tenerezza: sa commuoversi e commuovere con la musica e il canto e come un bambino, nei momenti di tristezza, sente il bisogno di sua madre, la ninfa Teti. Per questo va a piangere sulla riva del mare da cui la dea giunge “veneranda” a consolare il figlio, quella “creatura” così straordinaria, ma destinata a una breve vita, breve, ma gloriosa come l’aveva voluta lui. Patroclo, maggiore di qualche anno si distingue per la nobiltà dell’animo: sempre “ dolce” lo definisce Briseide. Egli non ha come Achille il culto della vita eroica, anzi manifesta una repulsione invincibile verso il sangue, ma mostra sempre un atteggiamento protettivo verso Achille: gli fa da madre, da fratello, da scudiero, ascoltandolo in silenzio mentre suona la cetra o seguendo la caccia, attento ai pericoli, ma anche agli eccessi di quella natura indomabile.

Un episodio che getta luce su questo legame, è quello del libro XVI, che ci presenta la scena in cui Patroclo, commosso fino alle lacrime per le difficoltà in cui s’imbattono gli Achei dopo il ritiro di Achille dalla battaglia, va alla tenda di questo per ricevere il permesso di indossare le sue armi e di portare soccorso ai compagni, alla testa dei Mirmidoni.

(Iliade, libro XVI) Patroclo, angosciato per la sorte dei Greci, incalzati da Ettore, entra piangente nella tenda di Achille e lo supplica che almeno gli conceda di partecipare alla battaglia indossando le sue armi; così i Troiani, credendolo Achille, ne avrebbero paura.

Dapprima l’ eroe gli chiede:

“Perché piangi, Patroclo?
Bamboletta sembri che, dietro alla madre correndo,
torla in braccio la prega,
e la trattiene attaccata alla gonna ed i suoi passi impedendo,
piangente la riguarda, finchè ella al petto la raccoglie.
Ordonde questo imbelle tuo pianto? …”.

Qui notiamo che Achille pur comprendendo nel suo animo il motivo del pianto dell’ amico, in modo affettuosamente ironico lo paragona ad una piccola bimba che correndo dietro alla madre piange perché vuole essere presa in braccio. Achille alla fine cede alle preghiere dell’ amico e rivolge a Patroclo queste raccomandazioni:

“…Va’…ti scaglia animoso e dalle navi quella peste allontana,
né patire che le si strugga il fuoco e ne sia tolta del desiato ritornar la via…
Cacciati i Teucri fa’ ritorno…
Né spinto dall’ ardore della pugna alle fatali dardanie mura
avvicinar le schiere della strage de’ Teucri insuperbito
onde non scenda dall’ Olimpo con qualche Immortale a tuo danno…”.

Achille ordina dunque che si leghino al carro i suoi divini cavalli: Balio, Xanto e Pedaso, cavallo mortale. Poi, mentre Patroclo e Automedonte, desiderosi di essere i primi ad assalire i nemici, avanzano, Achille invoca la protezione di Giove per l’impresa dell’amico.

L’apparizione di Patroclo ottiene l’esito voluto. I Troiani lo credono Achille e fuggono in ritirata.

Il licio Sarpedonte, figlio di Zeus, scende dal cocchio per sfidare Patroclo: questi lo uccide con un colpo di lancia al petto. Morendo, Sarpedonte supplica l’amico Glauco di spingere i suoi lici a vendicare la sua fine.

Il destino di Patroclo è ormai segnato, Giove dall’alto decide di concedere ancora al giovane eroe acheo qualche altra vittoria prima di essere ucciso dalla furia di Ettore.

Patroclo intanto, impetuoso e incauto, dimentico dei consigli di Achille, tenta per tre volte di assalire le mura della città nemica, ma è respinto per tre volte da Apollo che infine avanzando invisibile, lo percuote vilmente alle spalle e lo fa cadere a terra tramortito. Così Patroclo è facile preda di Euforbo e poi di Ettore che lo trafigge con la lancia nel ventre. L’eroe troiano si vanta del suo gesto, ma Patroclo, prima di morire, gli grida che non lui, ma un dio prima( Apollo )ed Euforbo poi, lo hanno ucciso:

“…Si, Ettore…a te hanno dato vittoria Zeus Cronide e Apollo…
me uccise destino fatale e il figliuolo di Latona,
e fra gli uomini Euforbo, tu m’uccide per terzo…”.

Ettore insulta ancora Patroclo, moribondo, il quale con fierezza gli predige la sua prossima fine per mano di Achille:

“…Altro ti voglio dire e tienilo in mente:
davvero tu non andrai molto lontano,
ma eccoti s’appressa la morte e il destino invincibile:
cadrai per mano di Achille…”.

(Il., XVIII) In seguito Antiloco, figlio di Nestore, annuncia al Pelide la morte di Patroclo. Colto dalla disperazione, Achille lancia un urlo, si rotola nella polvere, si strappa i capelli:

“…E una nube di strazio nera, l’avvolse:
con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa
se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;
la cenere nera sporcò la tunica nettarea;
e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,
giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.”

I lamenti di Achille giungono fino al fondo del mare, da cui emerge la madre Teti per domandare al figlio quale sia la causa del suo grande dolore. Teti informata dal figlio di ciò che è successo, gli ricorda che è scritto che egli morirà dopo la morte di Ettore:

“…Ah, sei vicino alla morte, creatura; come mi parli!…
Subito dopo Ettore t’è preparata la Moira”.

Achille però replica che è pronto a morire anche adesso e ad affrontare il proprio destino dopo la morte di Ettore: ormai egli vive solo per la vendetta:

“…potessi morire anche adesso poiché non dovevo all’amico
portar soccorso in morte; molto lontano dalla patria
è morto; io gli sono mancato, difensore del male.
E ora, che in patria non devo tornare mai più,
che non fui luce per Patroclo, né pei compagni,
per gli altri, molti son stati uccisi da Ettore luminoso,
siedo qui presso le navi, inutile peso della terra,
io che son forte quanto nessuno dei Danai chitoni di bronzo
in guerra….”.
“Ora del caro capo voglio cercar l’uccisore,
Ettore; la Chera io pure l’accoglierò quando
Zeus vorrà compierla e gli altri numi mortali.”

Fra gli eroi del poema, Patroclo è certamente uno dei più cari ad Omero per la sua giovinezza e gentilezza d’animo, per la devozione che lo lega ad Achille e per il suo coraggio che lo porterà a un fatale incontro con Ettore.

Ma l’ immagine di Patroclo rimane impressa nel nostro animo non tanto per il valore di guerriero, quanto per la nobiltà e l’accettazione del sacrificio allorché veste le armi del più forte guerriero greco, cercando di rendersi degno della sua lode.

Di Achille ci restano dentro, invece, le manifestazioni del suo dolore senza fine alla notizia della scomparsa dell’amico e quel senso di vuoto per cui solo la speranza della vendetta sembra dare ormai senso alla sua vita.

Così la loro vicenda è stata nei secoli successivi un modello che ha ispirato molti poeti e costituisce ancora per noi un esempio di “amicizia esemplare “, amicizia intesa come devozione totale.

(Maria Sole Giangiacomo-Maria Sofia Malipiero-Giulia Ziosi, 4^A)