Francesco Giardinazzo
Ritratto per tre poeti: W.C. Williams, W. Stevens, S. Heaney.
Primo ritratto: il poeta e la finestra aperta.

 


 

È certamente un destino particolare quello di William Carlos Williams, nato a Rutherford (New Jersey) nel 1883, e morto nel 1962. Il destino di essere vissuto, seppure dalla "lontana" America, nel transito delle grandi avanguardie europee - soprattutto quelle degli anni Venti: Cubismo e Imagismo, e di essere giunto ai confini di quella stagione definita oramai finalmente dalla Pivano come della «poesia degli ultimi americani». Tra questi spartiacque continentali, l'evoluzione della sua poesia si è svelata come un passaggio graduale dalla lirica all'epos: da Spring and All a Paterson, solenne monumento poetico ad un'America minore, di provincia. È un fatto che al pari di Tennessee Williams e di Arthur Miller, la scrittura di Williams abbia indagato con ostinazione i segreti di una realtà quotidiana: realtà che ritrovava poi nei pittori più amati, e di estrazione eterogenea, come Juan Gris (grande animatore, insieme con Picasso e Braque, dell'importante stagione del cubismo "analitico"), Bruegel (celebre una poesia su Der Kermesse); ma ebbe anche uno scambio epistolare con Robert Motherwell, importante esponente dell'Abstract Expressionism. E infine Edward Hopper, attivo negli anni '30-'40. Hopper appartiene, in particolare, al filone del realismo pittorico americano, che assume le caratteristiche del "Precisionismo". Termine dovuto all'attenzione per i particolari, agli sconfinati paesaggi nordamericani - chilometri di solitudini che suscitano quella solitudine, quell'idea di squallore che si ripercuote nella spoglia semplicità degli oggetti "vissuti" dalle stagioni: non ultimi, fra loro, gli esseri umani stessi - da cui discende la "reificazione" della persona stessa. Questa spersonalizzazione rappresenta un tenue filo che collega queste esperienze artistiche così diverse nella globalità della ricerca poetica di Williams. Da questi presupposti discenderà Warhol. Ma in Williams questo interesse "clinico" (era anch'egli, come Céline, un medico diviso fra i pazienti e la scrittura) non può prescindere dalla naturale ragione del fare poetico, anzi sull'avvisare decisamente che è la fantasia ad avere alla fine la meglio sulla realtà: così come i protocubisti che guardano a Cézanne - che aspirava ad un'arte realistica in forme saldamente costruite. Quest'aspirazione a riacquisire la costruzione del quadro e una rappresentazione del reale in un'architettura senza lacune, spesso poi derivava le proprie possibilità dall'uso di linee diritte e curve regolari, ed era una reazione diretta allo Jugendstil. Si scopre la pittura come scrittura in sé compiuta, i cui segni possono restituire la realtà esterna, senza doverla imitare. Intorno a questa scoperta fondamentale, partono le linee evolutive per Williams e Juan Gris (pseudonimo di José Victoriano Gonzales, Madrid 1887 / Boulogne-sur-Seine 1927). Da una parte abbiamo una dichiarazione del pittore spagnolo che afferma (si ripercuotono in queste frasi, le voci di Apollinaire e Mallarmé):

«Les artistes ont cru avec des beaux modèles ou des beaux motifs arriver au poétique. Nous croyons l'atteindre plutôt avec des beaux éléments, car ceux de l'esprit sont certainement les plus beaux» (in «Valori Plastici», febbraio-marzo 1919, numero dedicato al "Cubismo francese", p.2).

E nel 1923, su un numero della rivista «Der Querschnitt», dichiarava:

«Le monde dont je tire les éléments de la réalité n'est pas visuel, mais imaginatif. Si la façon de considérer le monde pour en tirer des éléments, c'est-à-dire l'esthétique, a varié suivant les époques, les rapports des formes coloréés entre elles, c'est-à-dire la technique, a [sic] été tojours pour ainsi dire immuable [sic]. Je crois donc ma technique classique, car je l'ai apprise dans les maitres du passé» (p. 77).

Tecnica ed estetica divengono anche per Williams - e nei termini di Gris - gli elementi di decantazione della propria poesia. Parlando di un collage dell'artista spagnolo, La fenêtre ouverte (1921), Williams affermava:

«[...] un quadro come quello di Juan Gris, sebbene io non l'abbia mai visto in colore, è di primaria importanza, tra quelli che ho visto, quanto a contrassegnare chiaramente la tendenza moderna: si sta tentando di separare dalla vita le cose della fantasia, e in modo ovvio, cioè usando le forme comuni all'esperienza così da non spaventare lo spettatore ma invece di invitarlo... cose che gli sono familiari, cose semplici - e al tempo stesso staccarle dall'esperienza ordinaria trasferendole nella fantasia. [...] Ecco una persiana, un grappolo d'uva, un foglio con spartito musicale, un'immagine di mare e montagne (egregia) che chi guarda non può assolutamente percepire come "illusione". Una cosa invade l'altra [...] tutto disegnato con ammirevole semplicità e disegno eccellente - tutto è unità [...]
Il solo realismo nell'arte è quello della fantasia. È soltanto così che l'opera si sottrae al plagio naturalistico e diviene creazione.
L'invenzione di forme nuove per dar corpo a questa realtà dell'arte, l'unica cosa che l'arte sia, deve impegnare ogni mente seria». (Spring and All, 1923, p. 325).

Che non possano essere altro che questi gli indizi del «Rinascimento americano» (come lo definì in un celebre libro Francis Otto Matthiessen); che non fosse altro che a partire dalla poesia di Whitman che questa nuova coscienza estetica doveva avanzare - non pare dubbio. Così come quell'idea di semplicità, che non è un prestito ceduo, ma è l'eredità più consistente che quelli del Mayflower lasciarono ai loro discendenti, nelle «vene dell'America» - per ricordare la raccolta dei saggi di Williams, uscita nel 1933, rilettura di miti di fondazione più che recenti del Nuovo Mondo, sempre con quella esattezza analitica che gli permette di affermare:

«Cosa tremenda e strana è che gli uomini, spogliati e spossessati, debbano considerare soprattutto quello che non hanno, e così, per l'intensità della loro vuotezza immaginando di essere pieni, ingannevolmente inducono se stessi e tutti i derelitti del mondo nelle loro tristi credenze. È lo spirito che, non esistendo in loro alcun luogo, è costretto a penetrare nei loro sogni. I Pellegrini, loro, il seme, invece di crescere, guardarono il mondo con nero cipiglio, e condannando le sue perfezioni lodarono uno zero in se stessi. L'inversione di un Calvino gotico. [...] Il risultato di quella coraggiosa partenza dei Pellegrini è stato un atavismo che impedisce e distrugge. [...] Qui le anime periscono miseramente oppure, fuggendo, sono contorte in grottesche forme di violenza e disperazione. È una forza ulteriore gettata in un continente già fin troppo potente per l'uomo [...] » (Viaggio del «Mayflower», in Nelle vene dell'America, Milano, 1985, pp. 90 e sgg.).

Dunque a suo modo Williams leggeva i suoi "maestri" della tradizione americana - oltre al citato Whitman, è evidente l'allusione a Nathaniel Hawthorne - elaborando però la propria "classicità" nelle forme espressive nuove. Si prestano benissimo alcune riflessioni di Glauco Cambon:

«Oggettivismo: parole come cose, niente morbidezze simboliste, niente fronzoli, niente cadenze scontate. Guardare la realtà in faccia, cogliere l'individualità degli oggetti, degli eventi, delle persone, la loro haecceitas, riconoscere che non avevano bisogno di alludere a qualcos'altro per avere un significato. La protesta contro la devastazione industriale del suo Paese andava di pari passo con l'inesauribile capacità di contemplare i processi germinativi della natura, i fiori, le piante, tutte le nascite. E la cultura cosmopolita non gli impediva di aderire alla ruvidezza della parlata locale. In Paterson mise in causa tutto se stesso e tutto il suo Paese; lanciò un grido d'allarme in pieno maccartismo, insieme a una proclamazione di fede nelle possibilità dell'uomo. Mancava il linguaggio, bisognava "inventarlo", cioè trovarlo, ricominciare da zero, ma non come gli elisabettiani, che lo fecero trapiantando un'Italia di sogno o d'incubo nella loro isola piovosa. C'era una vita da capire e da salvare [...] Niente idee se non nelle cose. Comporre. Inventare! [...]» (Introduzione a Verso «Paterson», Cosenza, 1987, pp. 14-15).

Di fatto, come l'altro grande poema del suo amico Ezra Pound, Paterson (nome della località in cui Williams è vissuto e che ha innalzato a Ur-Mith dell'identificazione dell'uomo con la sua terra) invoca: «to be men, not destroyers» (ma Williams accoglie anche la Waste Land di Eliot, pur con riserve morali sulla "conversione" dell'autore; e The Bridge di Hart Crane). Il disperante fallimento, col "Mayflower", del mito originario, dell'impossibilità edenica nel continente nuovo, costringe alla ricerca affannata di altri saldi punti di riferimento, all'ossessiva presenza di folgorazioni che rendono gli oggetti immediatamente spontanei, ed il linguaggio scarnito, a volte violento. Ma si diceva all'inizio, Williams ha davanti a sé il quotidiano, non la mitologia della seduzione - non la reiterazione ossessiva del lògos giovanneo dei semi che non fruttano (epigrafe splendida dell'epos "famigliare" dei Karamazov di Dostoevskij). Ha dinanzi a sé la pittura che cerca le cose, la poesia che non può avere più rime, ma che forma il verso senza torcere la lingua a valori ritmici artificiosi.

Come nel "collage" di Gris, il poeta guarda davanti a sé da una finestra aperta, gioca la propria saggezza e la propria sensibilità per tentare di giungere al cuore della realtà che, finalmente "vista", nessuno mai potrà più percepire come «illusione»: «Rigor of beauty is the quest. But how will you find beauty when it is locked in the mind past all remonstrance?». Questo è, in principio, il poema. «Il rigore della bellezza è il fine della ricerca. Ma come troverai la bellezza quando è serrata nella mente al di là d'ogni rimostranza?» (trad. di A. Rizzardi, Milano 1972, p. 43).


n. uno, agosto 1995 - 1995, n. 2


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