Quell'intramontabile politica dell'esperienza
Sessantotto. Un libro intervista e due saggi di Franco Piperno sulla stagione dei movimenti


Nel 1977 capitò a Franco Fortini di affiancare per un tratto una manifestazione di giovani per le vie di Milano. «Uno come me, - si trovò a commentare - tra di loro può essere solo uno storico, o un questurino, o uno spettro». A queste tre temibili figure si può aggiungerne una quarta: il reduce di altri movimenti e altre stagioni. Quanti testimoni-protagonisti del 1968 si sono aggirati in questa veste nel corso degli anni, brandendo come una clava le loro memorie e unità di misura, tra nostalgia per il tempo che fu e sollievo di esserne usciti con saggio e pacato «realismo», tra orgoglio e ravvedimento. Va da sé che Fortini, con tutta la sua autoironica lucidità, né storico, né spettro, né questurino, restava prima di tutto una testa pensante, curiosa, forte di un'esperienza passata non giocata contro l'esperienza presente. Così, dalla quarta figura si tiene alla larga Franco Piperno nel libro-intervista (accompagnato da due saggi) a cura di Pino Casamassima dedicato al 1968, «l'anno che ritorna» ('68 l'anno che ritorna, Rizzoli, pp. 180, euro 16,50). E forse non è un caso che proprio ai versi di Franco Fortini sia affidato il compito di aprire tutti i brevi capitoli che compongono il libro. Non si tratta di una rivisitazione, né di una pedante contabilità di meriti e difetti, ma del libero ragionare intorno ai fattori, gli ingredienti, le tonalità emotive, le esperienze che determinano un momento di rottura.
Conti in sospeso
Questa congiuntura si diede, nel 1968, in certe forme e modalità che difficilmente potranno riprodursi. Dobbiamo considerarle un esempio non un modello e, men che meno, uno schema. E, tuttavia, la costellazione della rottura, il tempo in cui domina la modalità del possibile, la crisi delle regole e delle norme, la netta percezione che quanto appare vigente non sia più vero, tutto questo certamente può ritornare, è «l'anno che ritorna», la ragione per cui stiamo ancora parlando del 1968 a distanza di 40 anni. La ragione per cui, con quella stagione, c'è ancora chi, digrignando i denti, vuole «saldare i conti».
Pochi movimenti, nemmeno quello altermondialista esploso a Seattle nel 1999, che della irriducibile pluralità ha fatto un dogma (movimento dei movimenti), ebbe caratteri così eterogenei come quello del 1968. Cosa potevano avere in comune marxisti critici, «cinesi», figli dei fiori, femministe, studenti antiautoritari, giovani operai immigrati fuori da ogni tradizione politica? Piperno ha una risposta, che a prima vista può apparire astratta, ma che a ben vedere è profondamente reale e radicata nel vissuto individuale e collettivo non solo di quel movimento, ma forse di tutti i momenti di rottura: «si dice che il '68 sia stato un volenteroso abbozzo di rivoluzione politica, sociale, culturale. Ma forse esso fu soprattutto un sommovimento di grande portata nella percezione del tempo». Una percezione che da una parte si liberava dalla tirannia storicistica (quella che respinge appunto la modalità del possibile e detta prescrittivamente le condizioni dell'azione), dall'altra rifiutava la proiezione del mutamento verso il futuro, coltivando «l'attitudine bella di strappare la gioia al futuro, quel rifiuto di differire ulteriormente il mutamento del presente là dove esso sia percepito come intollerabile». In breve «un pregiudizio favorevole al "qui e ora"». Nella loro «insurrezione contro l'ordine del tempo» i movimenti, dal 1968 a tutti gli anni '70, investirono dunque i miti della Storia e del Progresso, così come si erano profondamente radicati nel movimento operaio, tanto nella versione riformista quanto in quella rivoluzionaria. Il «comunismo all'orizzonte» fu ironicamente smontato dalla definizione scanzonata di orizzonte: «linea immaginaria che si allontana man mano che ci avviciniamo ad essa».
Ma non fu solo la percezione del tempo, il sacrificio del presente a favore del futuro, ad essere preso di mira, ma anche la sua organizzazione, la pretesa di misurare il lavoro e il suo valore, di dettare le tappe e le fasi dell'apprendimento, di mettere in sequenza «progressiva» le stagioni della vita. Il tempo del progresso, recava con sé una sequela di limitazioni e «compatibilità», un dispositivo disciplinare, in larga misura assunti e interiorizzati dalle organizzazioni storiche del movimento operaio. Con queste ultime il divario - e poi la frattura, che avrebbe raggiunto il culmine nel 1977 - fu inevitabile e aspra. Seppure esse non poterono del tutto evitare contaminazioni e contraddizioni interne.
Certo, alla «promozione del presente», seguì anche una sua «dilatazione» in senso conservativo, quella, per intenderci, che avrebbe decretato «la fine della storia», l'accomodamento con lo stato di cose esistente, quel tempo riempito dal proliferare seriale dei bisogni indotti, dall'accumulazione come unica forma di movimento, dall'«alienazione mercantile fabbricata proprio dalla sovrapproduzione industriale smodata», dall'«entropia della vita quotidiana». Il «progresso», insomma, si sarebbe esaurito, in termini qualitativi, anche per i suoi più decisi fautori, e sopravvive, semmai, come articolo d'esportazione, possibilmente armata, verso popoli e paesi che ne sarebbero stati indebitamente privati da cattive ideologie. La «promozione del presente», la volontà di sottrarsi, «ora e qui», a una condizione vissuta come insopportabile, l'interruzione di una paziente attesa del futuro, rivive invece, su scala planetaria, nei flussi migratori. È questa la più temuta e combattuta forzatura degli equilibri e delle «compatibilità» che abbiamo di fronte: sovente in rotta anche con quelle culture «altre», locali, apparentemente pacificate, che Piperno, talvolta, sembra ritenere relativamente indenni da elementi interni di corruzione e di oppressione. Questo insieme irriducibile di storie individuali, che formano però una Storia collettiva, non sono solo il percorso obbligato della disperazione, e neanche il suadente, ingannevole miraggio dell'Occidente, ma una forma di esodo che reca con sé, in forme problematiche, financo inquietanti, fattori di trasformazione e di rottura di enorme portata. Che non lasciano indenni nemmeno alcuni dei miti che pure i giovani del '68 coltivarono. La critica della modernità è decisiva, ma non basta.
E infatti Piperno, nel suo ragionare suggestivo, mai scontato, intorno all' anno dei movimenti, ne ripropone i molteplici elementi di radicalità che non risparmiarono nessun ambito dell'esistenza, né le promesse di futuro, né le certezze della tradizione. Senza soffermarsi, come è giusto, sulle stucchevoli formulazioni della retorica rivoluzionaria, che tanto confortano la malevolenza dei detrattori, ma andando diretto a quella concretezza del vissuto, a quella pienezza delle passioni, a quel susseguirsi frenetico di azioni e di scoperte, a quella particolare congiunzione di fortuna e virtù, per dirla con Machiavelli, che fu il 1968.
Pretestuosità da talk show
Esempio di questo ragionare della concretezza è la risposta che Piperno dà alla inevitabile domanda sulla violenza dei movimenti. La violenza sociale, spiega, a differenza di quella esercitata dalla macchina statale, non si da come ordine impartito, né come «programmazione anticipatrice» o preliminare decisione collettiva, e «acquista significato solo se collocata dentro la rappresentazione di una situazione concreta, presente al soggetto sociale nel corso del suo agire». Fuori da questo, e cioè così come se ne disquisisce nei talk show e nei comizi d'oggi, è una questione indecidibile e spesso pretestuosa.
Guardiamo dunque alla concretezza dell'esperienza, la quale ci rivela il duplice, contraddittorio significato di questa parola. Quello conservativo e rinunciatario del «sappiamo già come andrà a finire», dell'invito, di fronte a tanti fallimenti, ad abbandonare ogni velleità di trasformazione radicale; e quello del «fare esperienza», dello sperimentare altre possibilità, del sottrarsi a una Storia univoca e già scritta. Quest'ultimo significato di esperienza, quello che il '68 praticò in tutte le sue forme, è appunto ciò che non cessa di ritornare.


Marco Bascetta, "il manifesto", 8 aprile 2008