1977, il centro sociale di via Micesio

 

Via Micesio a Udine, è una piccola strada, collocata in prossimità di quello che allora era il quartiere più proletario della città. Un aspetto sociale marcato, che aveva portato Unità Proletaria, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, il Partito Comunista Internazionalista ad aprire lì le loro prime sedi, in un contesto accogliente, che non guardava a loro come ad un corpo estraneo da respingere. A migliaia di ragazzi, ogni giorno (due passi c’era il “Centro studi” che assommava ed assomma tuttora molti istituti scolastici superiori) si presentava la scena di un edificio bianco a due piani, ancora in buono stato, ma abbandonato, recintato col filo spinato e ricoperto da alte erbacce. L’area della nuova sinistra in quel 1977 stava attraversando una fase complicata, difficile. Erano trascorsi pochi mesi dalla a terribile ferita del terremoto ’76, dei mille morti sotto le macerie, della paura per un interminabile sciame sismico che segnava ancora la presenza dell’Orcolat, (dell’orco come i friulani chiamano questo fenomeno tellurico), di un Friuli tutto da ricostruire tra mille difficoltà. Un obiettivo ineludibile, che invocava grandi cambiamenti. La crisi interna di Lotta Continua poi, il suo scioglimento improvviso, il risalto delle manifestazioni di dissenso a Bologna e del significato dirompente di un intervento militare brutale e frontale contro tutto il “movimento” aveva sottratto un riferimento, un motivo di impegno sociale e politico importante, creando tanto scoramento e, in molti, un profondo senso di abbandono. Aveva rapidamente preso piede il fenomeno della “Piazzetta” (Piazza San Giacomo), uno spazio dove si incontrava la “sinistra creativa”, i “cani sciolti”, gli arrabbiati senza preciso bersaglio, pieni ancora di una gran voglia di umanità, di contatto, di comunanza. Ad un gruppo di loro venne l’idea: perché non ci diamo da fare e mettiamo su un “Centro sociale” in Via Micesio, sull’esempio del Leoncavallo e di tante altre iniziative? Detto fatto, si rimuove il filo spinato e i ragazzi si danno da fare per rendere l’ambiente abitabile e adatto all’occasione. Via le erbacce e la polvere, una grande scritta "Centro sociale occupato", il fermento volto a lasciare il segno di un festoso passaggio di funzioni, dai disegni alle poesie vergate sul bianco degli intonaci. La notizia del blitz si sparge, arrivano altri, portano le chitarre, gli strumenti per dipingere quadri, gli argomenti per aprire discussioni di gruppo, per recitare, per allestire spettacoli di piazza. La sera solo un nucleo di ardimentosi si trattiene, con le coperte e i sacchi a pelo. La tensione attorno al caso cresce, le voci dell’establishment, della reazione politica, della destra retriva puntano l’indice e chiedono alle forze dell’ordine di mettere fine allo spettacolo “indecente” di drogati, sfaccendati e pericolosi fiori del male. Le poche foto allegate raccontano di questa storia, del tentativo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul diritto di chi è giovane ad avere uno spazio culturale di aggregazione e di impiego libero della fantasia. Attenzione e simpatia si produssero, ma tra i giovani. La parte matura e strutturata della città tuttavia continuò, nei suoi ritmi lenti e sonnacchiosi, a coltivare un’idea di ordine cadenzato, privo di suoni e di colori diversi dal grigio. La repressione arrivò, con l’irruzione delle forze dell’ordine, con il tradizionale bagaglio di maltrattamenti e di denunce, di roboanti capi d’accusa. Gli avvocati compagni furono bravi e si diedero un gran da fare a difendere gli arrestati, a demolire il castello accusatorio, a evidenziare la semplicità e l’innocenza delle intenzioni. Ma il castello di sabbia era stato calpestato, il profilo dei suoi torrioni abbattuto. Quell’edificio di Via Micesio ha ripreso vita un anno fa, dopo quasi quarantacinque anni, sotto forma di normale attività commerciale. Quanto ho ricordato non mi vide protagonista attivo in prima persona, ma spettatore. Avevo cominciato a lavorare nel sindacato per la ricostruzione post-terremoto, e i miei tempi avevano cambiato le amate cadenze della militanza politica a tempo pieno.
Ma per me Via Micesio significa ancora Centro sociale, la parentesi vivida di qualche settimana di libertà. Potrebbero fare lì, adesso, le migliori opere di arte orafa, che per me non cambierebbe timbro. Via Micesio era un Centro sociale… dove i ragazzi provavano a dare corpo ai sentimenti, disarmati, senza fare male ad alcuno, immaginando che un mondo migliore fosse ancora possibile. E' sempre stata dura per i sognatori d'orizzonte.

(Ferdinando Ceschia)